
Nei giorni scorsi, a Firenze, precisamente dal 4 al 6 aprile 2019, si è tenuto un interessantissimo convegno, organizzato dalla Fondazione Intercultura, che ha visto confrontarsi neuroscienziati ed educatori, filosofi e interculturalisti, sul tema del rapporto tra cervello e culture.
Più precisamente il convegno, dall’intrigante titolo “Tabula Rasa? A Blank Slate?” (ispirata a una celebre opera del neuropsicologo di Harvard Steven Pinker), è stato imbastito sulla cruciale domanda che Lamberto Maffei, neuroscienziato al CNR e alla Scuola Normale di Pisa, si è posto:
Se determinate proprietà siano già presenti alla nascita, e quindi siano riferibili ai geni che sono la base della costruzione di una determinata struttura cerebrale, o se siano frutto dell’esperienza.
La Fondazione Intercultura non è nuova a queste iniziative di altissimo spessore, ma stavolta ha stimolato in me un interesse e una passione irraggiungibili.
Cosa avrei potuto trovare di meglio, visto che sono un appassionato di educazione interculturale (sono un volontario di Intercultura Onlus da molti anni, e sono anche un formatore nazionale e internazionale per questa associazione) e di neuroscienze (principalmente a causa del mio ruolo di country manager e master trainer di Emergenetics)? Proprio per questo ho deciso di sponsorizzare questo evento, col brand Emergenetics.
Vorrei far notare che il nome Emergenetics non è casuale, ma esprieme esattamente l’idea che noi siamo, in termini cognitivi e comportamentali, il frutto del combinato disposto di cultura, ossia l’ambiente in cui cresciamo e viviamo (Emerge) e natura (Genetics), ossia il patrimonio genetico ereditato dai genitori.
Nessuno altro sponsor sarebbe potuto essere più in linea con il titolo e con gli scopi di questo convegno, ossia capire come si combinano questi due aspetti: genetica e cultura.
Non posso certo qui descrivere e sintetizzare le decine di interventi dei migliori neuroscienziati italiani (es. Maffei, Barbujani, Cavalli Sforza, Moro, Fabbro, solo per citarne alcuni) e internazionali (es. Pinker, Tattersall, Richerson, sempre per limitarmi a pochi nomi).
Mi limiterò a sintetizzare la mia esperienza avvalendomi fondamentalmente delle parole finali, mirabili e coinvolgenti, usate dall’Ambasciatore Roberto Toscano, Presidente della Fondazione Intercultura.
Toscano, riprendendo una felice similitudine emersa durante una delle tante conferenze, ci sottolinea che, se “la genetica sta all’hardware come la cultura sta al software”, allora dobbiamo aver presente che il nostro cervello, per quanto potente, ha dei limiti strutturali, e come tutti gli hardware riesce a “far girare” in modo efficiente solo una parte del software culturale che creiamo in continuazione.
E in effetti l’evoluzione della cultura è assai più veloce dell’evoluzione biologica e genetica del nostro essere.
Anche Toscano ammette, come me, che sarebbe bellissimo poter tornare indietro e studiare le neuroscienze, dato che son la branca del sapere umano che in questo momento sta crescendo di più, e mostra un’ampiezza di prospettive incredibili.
Di fronte al dilemma uguaglianza-diversità, è ormai assodato che la diversità non si può spiegare col concetto di razza, che si è dimostrato del tutto fallace. Già Einstein, nel celebre e strepitoso aneddoto del suo arrivo negli Stati Uniti come esule, nel compilare la scheda per l’ufficio immigrazione alla voce razza riempì lo spazio con l’aggettivo “umana”.
Ci sono però le differenze culturali. E queste sono evidenti, come anche le differenze cognitive e comportamentali. Su questo fronte, le neuroscienze stanno indagando e stanno arrivando a conclusioni assai interessanti, come ci hanno spiegato i numerosi neuroscienzati presenti al convegno.
Toscano ci ricorda, tuttavia, che le due dimensioni, genetica e culturale, non sono neutre.
Basti pensare al campo politico, ove forse i conservatori potrebbero propendere per posizioni fortemente legate all’idea di prevalenza del DNA, cosa che potrebbe spingerli a nuove forme di razzismo.
I culturalisti, invece, tendenzialmente più fiduciosi nell’assoluta adattabilità di tutti a tutte le condizioni, sembrano più propensi a diventare progressisti.
In ogni caso, per tutti noi volontari di AFS Intercultura, un outcome importante di questo convegno è che le intuizioni di questa associazione internazionale dedita allo sviluppo dell’educazione interculturale sono confermate.
I ragazzi adolescenti che affrontano un lungo periodo di vita all’estero, ospitati da famiglie locali e frequentanti scuole locali, godono di un’esperienza che ha un impatto rilevante e positivo sul loro sistema cognitivo. È essenziale che i nostri giovani includano nel proprio bagaglio la parte variabile dell’essere umano, il vissuto delle differenze e della convivenza con le differenze.
I ragazzi, vivendo questo genere di esperienze, si rendono conto che non tutto è diverso, anzi che in pratica la vita differente ha un suo senso, e perciò riescono a razionalizzare tali differenze. E lo fanno immergendosi pienamente, anteponendo la pratica alla teoria.
Lo scopo di questa esperienza non è l’assimilazione. Non dobbiamo puntare a una sola cultura mondiale. Però dobbiamo avere le skill necessarie a rapportarci con altre culture, sapendo individuare le differenze ma anche tutto ciò che è in comune.
Peraltro, Le abilità interculturali ci sono sempre utili, anche quando non lasciamo le nostre terre native. Il confronto con altre culture è di fatto inevitabile. Quello che ci serve non è l’assimilazione, bensì il dialogo. E il dialogo presuppone il rispetto. Non vogliamo essere relativisti, bensì pluralisti. Il pluralismo è un vero e proprio patrimonio dell’umanità.
Saper valorizzare le differenze porta al dialogo, alla collaborazione, alla pace.
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